venerdì 13 agosto 2010

La Fortuna con la F maiuscola! Cronaca di una bella serata.

Preparandomi ad assistere alla rappresentazione teatrale messa in scena dai ragazzi della Compagnia San Nicola, pensavo a cosa avrei potuto scrivere in questa recensione e soprattutto mi incuriosiva osservare e verificare se Palagiano, tramite i suoi giovani, risulta essere in grado di esprimere in maniera endogena un’espressione di cultura, intesa soprattutto come coltivazione di una passione e come metodo di linguaggio.
Devo ammettere che già l’osservare l’afflusso di gente, ad un evento a pagamento, mi faceva ben sperare. Se la gente è disposta a pagare per un qualcosa ciò, senza tema di smentita, significa che quel qualcosa merita di essere visto ed apprezzato. Questo è tanto più vero quanto gli eventi sono ripetuti registrando, sempre, un’alta affluenza.
Della Compagnia San Nicola e dei suo componenti, devo ammetterlo, non sapevo nulla e ciò non faceva altro che accrescere quel senso di curiosità che si impadronisce di ognuno di noi ogniqualvolta si è di fronte una novità assoluta.



Ma silenzio, ora, che si alza il sipario!
“La Fortuna con la F maiuscola” è una commedia in tre atti, i cui autori sono De Filippo e Curcio, che si incardina nel solco della tipica tradizione napoletana incentrata, nell’immediato dopoguerra, sulla cronica mancanza di risorse in una famiglia e sulle “strategie” messe in campo per ovviare a tale carenza.
Il tutto, ovviamente, giocando su di una forte caratterizzazione dei personaggi, quali ad esempio Don Giovannino ed Enricuccio, nonché sul progressivo ingrandimento, quasi un’osservazione al microscopio, di quell’universo particolare costituito dalla famiglia e dal suo immediato vicinato, visti in un momento storico in cui, tra vicini di casa, non vi erano porte e le case erano quasi aperte alla visione di tutti, sia pure con quell’ineliminabile carico di sospetto tipico della popolazione meridionale.

Don Giovannino è uno spiantato cronico, con una moglie ed un figlio adottivo mai riconosciuto (“Vedilo Giovannì, vedilo quanto è Bellino! Ed ora vedi che è diventato”), che ad un certo punto rischia di mandare all’aria il colpo di fortuna della vita (quello con la “F” maiuscola) compiendo un affare da poche decine di migliaia di lire.
Il suo microcosmo, quello su cui gli autori si sono incentrati quasi zoomando con un’immaginaria telecamera, è costituito dalle quattro mura della sua casa (“che è fredda e ci piove dentro. Che ha i materassi duri e le coperte bagnate e noi, quando andiamo a letto, la mattina ci alziamo più stanchi come se avessimo lavorato!”) e dalle diverse anime che abitano il suo palazzo, dalla portiera tuttofare ed impicciona, la prima a comparire entrando in casa senza permesso ad una presunta vaticinante di Sant’Anna.
La contrapposizione tra ricchezza e povertà, che fa da sfondo alla commedia, si manifesta soprattutto nelle diverse esigenze e priorità che scandiscono la vita dei personaggi.
Infatti, se l’esigenza primaria della famiglia di Don Giovannino è quella di trovare il modo di mangiare (“I maccarun” – sospira continuamente Enricuccio - "Dottore, le medicine si possono prendere prima dei pasti anzichè dopo?Sa, per non sospendere la cura per troppo tempo tra un pasto e l'altro! - avverte Don Giovannino in presenza del Dottore) per i ricchi, Donna Amalia e Don Vincenzo, i problemi sono, apparentemente, più leggeri quale quello di coprire il tradimento coniugale.
Del resto è proprio l’invasione delle problematiche della vita dei ricchi in quella dei poveri, con Donna Amalia che usa l’innocuo ed ingenuo Enricuccio come postino delle sue lettere amorose (“Donna Amalia mi ha dato 1000 lire ed io ho comprato un mefisto, un passamontagna, perché in questa casa fa freddo”), a determinare l’evento traumatico che porta Enricuccio a perdere la voce impedendogli di avvertire in tempo Don Giovannino che suo fratello è morto in America lasciandogli una ricca eredità.

Questa eredità, “le sostanze” come ama dire Don Giovannino al suo notaio, non potrà essere intascata dallo sfortunato in quanto nel testamento lui veniva nominato erede a condizione di non avere figli, altrimenti eredi sarebbero stati questi ultimi.
Purtroppo, Don Giovannino <­un figlio di due giorni e 22 anni> lo aveva avuto legittimando, per consentirgli un adeguato matrimonio, un Barone in cambio di 100.000 lire.
Qui si innesta l’ultimo atto della commedia, quello che più di tutti era stato scritto per pensare.

Don Giovannino, con il suo notaio, cerca di convincere il Barone a rinunciare all’eredità per permettere alla sua famiglia di poter guardare al futuro in maniera positiva.
Il Barone, però, accertato l’ammontare dell’eredità decide di non rinunciarvi ed annuncia anche che il suo era un matrimonio di pura convenienza che, a quel punto, non si sarebbe più tenuto.

“Notaio, controllate bene, ha firmato?”. “No!”.
Su quel no sembra infrangersi ogni speranza del protagonista, fino a quando non decide di denunciare se stesso per falso in atto pubblico, facendo cadere la legittimazione, rischiando di scontare cinque anni di carcere, ma potendo divenire erede delle risorse del fratello.
A questo punto il monologo finale di don Giovannino che, per convincere la moglie della bontà della sua decisione, riflette su quanto la ricchezza, nell’intimità della casa, non significhi necessariamente felicità e che, per questa ragione, la cosa di cui si dovrebbe aver paura non è il carcere ma i “milioni”.
Ma lui, Don Giovannino, non ha alcuna paura dei milioni perché, dopo aver scontato la pena, quei soldi sarebbero stati “lavorati” e lui avrebbe potuto dir loro “Milioni! Io vi ho sudato, ora fate il vostro dovere e saltate nel portafoglio!”.

L’adattamento in dialetto fatto dai ragazzi della Compagnia San Nicola era ben reso e fedele alla commedia originale, per di più sostenuto da ottime capacità interpretative dei vari attori.
Le movenze sul palco, la gestualità, dimostravano che dietro questa rappresentazione vi sono state ore di fatica e di impegno da parte dei ragazzi della Compagnia e le rumorose risate del pubblico, che pare essersi divertito parecchio, erano la miglior riprova possibile che il loro tempo e le loro fatiche avevano dato i frutti sperati.
Qualche parola in più, in quanto riferita ai personaggi principali, devo spenderla per Giambattista Tinella e Maurizio Favale, rispettivamente Enricuccio e Don Giovannino.
Entrambi hanno mostrato una notevole capacità interpretativa ed una mimica non comune per degli attori amatoriali.
Giambattista Tinella, con le sue espressioni facciali, riusciva a rendere in maniera pressoché perfetta l’immagine del giovane bonaccione. Il suo tentativo di spiegare a Don Giovannino perché non dovesse recarsi dal Notaio a legittimare il Barone rappresenta una perla di mimica teatrale non accompagnata dalla parola.
Maurizio Favale, invece, a tratti mi ha ricordato il De Filippo originale, soprattutto nei suoi sguardi interrogativi, nei momenti di panico, nel riuscire a trasmettere con un movimento corporeo lo stato d’animo e le sensazioni cucite per il suo personaggio.

Il duetto tra Don Giovannino ed Enricuccio, con il primo che tenta di insegnare a parlare “all’infantilito di sei mesi”, ha fatto letteralmente impazzire il pubblico. (seduti uno di fronte l’altro, “Vediamo come sai dire Papà. Pa-pà! Pa-pà!”).

In conclusione, i ragazzi della Compagnia San Nicola hanno permesso al pubblico di Palagiano di godere di una serata di buon teatro dialettale, permettendogli di tornare a casa col sorriso sulle labbra e con una sensazione di leggerezza che per i tempi attuali è un sollievo non da poco.
A noi la consapevolezza che è possibile fare cultura con sacrificio, passione ed impegno ed il piacevole dubbio che, visti i risultati che le diverse associazioni impegnate in campo teatrale stanno producendo, la vocazione culturale di Palagiano possa essere proprio quella del Teatro.

Ai ragazzi di San Nicola, dunque, il nostro grazie per questa bella serata.

Un saluto
Donato Piccoli

fonte: www.palagiano.net

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